Montag, 24. Januar 2011

"Adolfo", racconto di Nicola Russo

Adolfo


La storia inizia con quella terribile notte in cui il mio fratellino Adolfo „Fofonnuzzu“ ci lasciava.
Eravamo tutti nella camera da letto dei genitori. Io e mio fratello, di due anni più piccolo, dormivamo nello stesso lettino, uno alla testa del letto e l'altro ai piedi.
Notte cupa e piena di paure quella. Si udiva il lugubre e monotono pigolio di una civetta su uno dei tetti di fronte. Ritornavano alla mente i racconti degli adulti sui segni premonitori; il verso della civetta che annuncia l’avvicinarsi della morte.
Avevo paura. Una paura angosciosa accompagnata da brividi di freddo, che in un bambino di sei anni diventa terrore.
Non riuscivo a chiamare mia madre o mio padre. Loro erano svegli e accarezzavano il loro piccolo che stava male e si lamentava come un cucciolo abbandonato al margine di una strada assolata della campagna calabrese.
Ha la febbre alta, troppo alta – diceva la mamma.
Non è niente, passerà – diceva mio padre con una voce che lasciava intravedere tutta la disperazione di chi ha detto una bugia. Lui aveva capito che stava per morire.
Bisogna chiamare un medico! Vado io – dissi facendo uscire con uno sforzo tremendo quella frase dal profondo dello stomaco.
Mi vestii in fretta, sapevo dove andare; in paese di medici ce n’era solo uno. Il buio della notte non mi faceva più paura; ero diventato un uomo. Io ero il più grande. Io dovevo proteggere il fratellino dall'attacco della morte. Dovevo sfatare la credenza del verso della civetta.
Correvo senza respirare, con un dolore tremendo in un fianco. Il portone era chiuso. Bussai con tutte le mie forze, ma nessuno veniva ad aprire. Cominciai a lanciare pietre contro le finestre. Finalmente una voce stridula di  donna chiedeva chi fossi e che cosa volessi. Dissi a chi ero figlio e che avevamo bisogno del dottore. Dopo qualche tempo il portone si aprì e ne venne fuori una enorme figura scura con una borsa nera. Il dottore camminava lentamente, senza fretta, come se fosse uscito per fare quattro passi e incontrare qualche amico. Cominciai a piangere perché non avevo il coraggio di dire a quel grasso in movimento che doveva fare in fretta perché il mio fratellino stava morendo.
All’alba era tutto finito. La nonna e la zia, che abitavano al piano di sotto, entrarono nella stanza con l’aria di chi è stato disturbato nel proprio riposo. Guardarono il piccolo e mi sembrò di scorgere in mia nonna, sul viso da strega di quella cosa piccola e minuta, un'aria di soddisfazione. Ebbi l’impressione che mormorasse qualche cosa - biondo e con gli occhi azzurri! - Una sensazione di odio nei confronti di quella nonna e di quella zia prese il sopravvento nella mia mente.
La piccola bara bianca fu messa su un tavolo nella stanza accanto alla camera da letto, con i piedi rivolti verso la porta. Un gruppo di vecchie vestite di nero biascicavano in un linguaggio incomprensibile. Io stavo aggrappato ai bordi della piccola bara bianca e parlavo con il mio fratellino. Gli ricordavo i giochi, che facevamo insieme e le ninne nanne che gli cantavo per farlo addormentare. Il cuore mi si stringeva sempre di più col passare del tempo e la presa di coscienza che avrebbero portato via quel bambino biondo e con gli occhi azzurri.



prire. o una bugia. hestava



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